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Parlare di Roger Federer, ancor peggio scriverne può sembrare un'operazione velleitaria, supponente, e probabilmente inutile. Cosa mai possiamo aggiungere, noi mortali, a quanto già evidente in ogni manifestazione terrena del divino. Egli ontologicamente è. A noi resta il compito di presenziare attoniti alle sue movenze, evitando di inquinarle con inopportuni commenti, fastidiose considerazioni o peggio, volgari elenchi di numeri. Letto in questo senso, il lavoro di Umberto Marino coglie nel segno alla perfezione. Affrontare Federer non dal punto di vista iconografico puro, ma come opportunità per descrivere una traiettoria onirica. Un monologo tennistico teatrale che utilizza Roger come pretesto per confrontare il sublime col normale. Un numero due alle prese con una divinità: come potrà mai andare a finire il match, ammesso che di match si possa parlare? Ossimoro che non lascia scampo. Un ragionamento che utilizza il tennis come metafora dell'esistenza, sublimato tramite il fanciullo che è in noi e che ci restituisce un poco della nostra età perduta. Prefazione di Stefano Meloccaro e postfazione di Stefano Pescosolido.