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Quale incidenza ha ancora la cultura nella nostra società? Gli intellettuali, i "chierici", giocano ancora un ruolo decisivo nel definire l'assetto socio-politico dell'Occidente? E se non è così, è perché essi hanno abdicato o perché hanno subito un ammutinamento? È possibile allora indicare nuovamente un fine comune all'agire e al pensare, che inscriva entrambi entro un unico orizzonte di senso? Queste domande, attualissime, assillavano già negli anni Trenta Denis de Rougemont, allora membro attivo nel movimento personalista parigino. Il momento storico era tra i più delicati, teso tra le macerie di una guerra passata e le sirene di quella futura: de Rougemont cercò di rimettere insieme i cocci, e allo stesso tempo di prevenire future malattie. La via che egli indicava era quella del recupero del valore assoluto della "persona", dell'irripetibilità e della dignità di ognuno nel proprio nucleo esistenziale: così la società occidentale ritroverebbe un fine comune, così l'Europa guadagnerebbe nuovamente un telos verso cui indirizzare le proprie millenarie risorse culturali.