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"Ora la toga non li divideva più, ora gli sguardi potevano parlare lo stesso linguaggio e il giudice capì la domanda che gli occhi umili, rassegnati dell'imputato gli rivolgevano, la capì e gli rispose, e c'era tanta rassegnazione nelle sue parole, più disperato era il giudice che il condannato. Mi chiedi se sia giusto. No, Matteo, non è giusto. Ma è la legge. Non chiederlo a me perché la legge non è giusta, non lo so, Matteo, e sono tanto confuso. Non era questo che volevo, Matteo, io sognavo di cogliere a grappoli le stelle nel palmo della mano, tuffarmi nelle nuvole, anime di poeti, sognavo le notti bianche, scamiciate, gli schiamazzi ribelli, i calci a un barattolo di latta, le sassate ai lampioni poliziotti che svelano i segreti degli amanti, i conversari che a nude fontanelle chiacchierine alleviano la solitudine, sognavo le notti senza meta, i giorni senza le ore, la vita senza un fine, sognavo la libertà infinita, sconfinata, sognavo raccontar la mia anima, sognavo vivere di poesia, vivere la bohème in anarchia, e ora, imprigionato in una toga nera, schiavo di articoli, commi, capoversi, di astratte fattispecie, fattispecie pure io, arida e astratta, leggo nei tuoi occhi la mia stessa pena, fratello incatenato, e faccio bianche le notti, ma a parlare di te, dei tuoi delitti nelle sentenze, potessi, Dio, potessi qui, con un colpo solo, liberarmi di questo straccio nero e sputare qui, qui, ai piedi del bancone dove c'è scritto che la legge è uguale per tutti".