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Già dal titolo la consumazione di una tragedia: "Ce fu nu monne"! In un altro tempo la parola era tenace come la pietra su cui la si scolpiva. Ma a poco a poco, e poi all'improvviso, uno stordire di sensi e di colori: lo scombussolamento di un tempo che frana... E che vogliono dire quei segni di radici estirpate, e poi l'apparenza, il falso, la boria che dilagano? Lontano, nello spazio buio di un naufragio, un grido strozzato invoca la salvezza primigenia... la madre! Non era mai successo prima d'ora che la poesia dialettale abruzzese dovesse confrontarsi con lo stravolgimento di una realtà che ha spodestato un lungo ordine di secoli; la realtà di un mondo dove tutto è fluido, simulato, un mondo senza passato e senza futuro, dove persino il presente si disfa incomprensibile sotto i nostri occhi. Ma non si creda che in "Ce fu nu monne" sia esclusivo il tono dell'amarezza per il tempo stravolto in cui ci tocca vivere perché, invece, ricchissima è la tastiera su cui Mario D'Arcangelo modula emozioni e sentimenti: lo stupore, la pietà (per la terra e le umili creature), la fratellanza, l'amore, la speranza.