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Giuseppe Massa costruisce sapientemente atmosfere giocate sulla precarietà del vivere, sull'attesa disperante e senza futuro di una catarsi improbabile, nel segno, anzi, della tragedia. È così che, secondo un modulo di conversazione che spezza l'ordito piuttosto che favorirlo, l'artista ha scelto, una volta per tutte, la rovente temperatura inerziale cui condurre l'assenza di azione. Una pressione cui si soggiace - è la parafrasi di "Sutta Scupa" (2006), destinato a divenire emblematicamente il marchio della compagnia - per produrre discorsi sul vuoto, "sottovuoto", che fanno argine al troppo pieno della "civiltà" della comunicazione in cui siamo immersi, in nome di una nostalgia prepotente per l'habeas corpus dello spazio scenico. Da "Kamikaze number five" (2010) a "Nel fuoco" (2012) passando per "Chi ha paura delle badanti?" (2012), ciò cui si assiste, infatti, è un requiem sul corpo come oggetto di svuotamento, di un disfacimento inesorabile cui opporre, come estrema risorsa, una resistenza sacrificale, carnale.