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Il massimo poeta di Roma si accuccia estasiato nel Settecento di William Hogarth. Eppure, a Roma, Hogarth non è mai stato. La Roma di oggi Acitelli non può che stringerla di notte, quando rincasano i " finti scellerati "; e solo di notte, sdraiato sul marmo liscio a Palazzo Farnese, riesce a respirare le "soavi intese" con il passato dissolto. Il poeta di Roma "retrocede dal mondo attuale", e nel suo "cuore/locanda" c'è Hogarth, un Settecento carnale e cerimonioso - un mondo ormai perduto di codici precisi. Acitelli ancora aspetta la venuta di Hogarth e, nell'attesa, nel suo animo si fa largo il rosa, la seta, i tappeti, la visione di una Roma sontuosa e popolare. Questo canzoniere della retrocessione sentimentale è la cronaca di un esilio, "d'un sentimento che non ha misura", di una fuga e, all'imbrunire, quando spuntano come fantasmi cardinali ubriachi, Acitelli si culla nel suo Settecento, in voci lontane di tosse e di preghiera. Trionfa, ancora una volta, il grande sentimento della romanità. E questa città dipinta da Acitelli - come l'avrebbe, forse, dipinta Hogarth - odora di chiese, di camini accesi, e brulica di nobili, di donne, di avventurieri e di "anatomisti in fuga". Il poeta è un'ombra che s'infila nell'ombra viva della storia. Spuntano lacchè, guardie, preti e una madre calata in una tela di Hogarth. (Andrea Di Consoli)