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Nella trilogia di Cristiano Ferrarese - giunta al suo secondo tempo, dopo 1967 e prima di 1985 - la follia è ancora un "altrove" di questo mondo. E sempre, in Ferrarese, la metamorfosi, la mania, la paranoia si trasformano in discorso civile e politico. Il suo "delirio", però, non è utilizzabile dai turisti dell'antipsichiatria. È un denudamento osceno. E non è una calligrafia dell'inferno, questo 1976. Non vi è il romanzo, il maledetto romanzo "cartesiano". La narrazione è sbriciolata, come dopo una granata. C'è solo odio, rabbia, nostalgia - e amore impossibile. Come nel paranoico per eccellenza (sua altezza Louis-Ferdinand Céline), anche qui la totalità è frantumata e sgretolata, e le parole mai sono belle, ma dette con sublime violenza: singhiozzando, piangendo, odiando, in una dolorosa condizione che è, insieme, sorgiva e terminale.