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"Si era nel sessantotto. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e insieme a Carla Cerati, fotografa milanese, avevamo realizzato delle fotografie per L'Espresso sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così, abbiamo deciso di farne un libro, 'Morire di classe', che, con l'aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all'Italia le condizioni tragiche di questi malati." In questo modo Gianni Berengo Gardin, in un testo recente, ricorda la genesi di uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia del fotogiornalismo italiano. La fotografia entrava in strutture proverbialmente chiuse e faceva luce - nel vero senso del termine - su condizioni e situazioni che non dovevano essere mostrate. Il sessantotto della fotografia italiana passava anche per queste immagini e attraverso un lavoro così prettamente sociale, riscopriva una sua urgenza, una centralità, un valore e una necessità intrinseca che poi è quella di rivelare, indicare e, come in questo caso, indignare. A distanza di anni, rivedere la documentazione completa realizzata da Gianni Berengo Gardin in quell'occasione - muovendosi con Carla Cerati e poi anche da solo in diverse strutture italiane, da Gorizia a Trieste, da Parma a Firenze e a Siena - permette di recuperare il senso di un lavoro straordinario.