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«La piega dei fogli che ho letto» e un «labirinto tra i campi» sono le tracce di un ritorno all'origine delle parole che Stefano Pini compie provando a esprimere l'indicibile che è il nervo sempre scoperto della poesia. È un tempo della memoria, proiettata nelle ombre del contemporaneo, da mappare come un reticolo urbano in una Milano dove «accadevano seconde e terze vite». Luoghi, paesaggi e città, personaggi misteriosi e ossessioni di una modernità cresciuta sulle macerie del muro di Berlino e approdata alla stentorea fissazione digitale si incontrano in un pendolarismo imperfetto tra metropoli e provincia, privato e pubblico. in questo «tempo sospeso» la parola riesce a far riemergere i lettori, come palombari dalle profondità, anche se nessuno spiega questa «azione sacra/che spera».