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"Fulvia aveva avuto ragione a dirmi che io temevo la morte più di lei. Era vero, molte volte avevo sentito di volerla tenere più lontana io dai miei pazienti che non loro da se stessi. Quando ero in sua compagnia non temevo la morte, piuttosto pensavo alla fine dell'esistenza come ad un compimento dolce, come un'aura di energia tonda che arrivava a ricongiungersi, nel suo ciclo naturale, con l'altro suo capo. La pace serena di Fulvia mi ricordava quel senso che gli antichi greci davano ad un tipo di felicità che chiamavano 'macarìa', per indicare quella felicità che era puro senso di pienezza, una espansione del proprio essere che giunge alla propria fine con appagamento, al suo compimento con naturalezza. Sentivo Fulvia in pace con la vita così come con il pensiero della sua fine. Non avevo mai colto una nota di disperazione in lei, né mai l'avevo vista dimenarsi per cercare di aggrapparsi alla vita a tutti i costi. Viveva felice e in pace senza curarsi di altro."