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Giudicato un avventurista dagli antichisti, ascritto alla «storiografia afilologica» da Croce, a lungo bandito dagli studiosi accademici, Johann Jakob Bachofen era destinato a trovare accoglienza soprattutto presso filosofi e mitologi, da Nietzsche a Benjamin, da Kerényi a Dumézil. Del coltissimo giurista di Basilea che trattava l'antico en amateur, rivolgendogli uno sguardo sovrano, Furio Jesi iniziò a tradurre l'opera più discussa, II matriarcale, che gli parve accamparsi nella cultura europea con una centralità paragonabile alla nietzschiana Nascita della tragedia. Questo saggio, risalente al 1973 e pubblicato ora per la prima volta da Andrea Cavalietti insieme con altri materiali esegetici, doveva costituirne l'introduzione. Mentre indaga le diverse ragioni della rinascita di interesse per Bachofen in Benjamin da un lato e nel pensiero reazionario di Klages o Dacqué dall'altro, e sulla scorta di entrambe le letture affronta la scienza bachofeniana del simbolo e del mito, Jesi mette a punto la propria officina teorica e convoca implicitamente i propri maggiori, individuati tra coloro che sanno accedere alla religiosità delle origini senza boria storicistica.