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«L'avrebbero vestita le sue nipoti. Io diedi loro l'abito che aveva comprato da poco e una camicia di percalle. L'abito era rosa antico e smanicato. E Paola non girava mai a braccia nude, le sembrava poco elegante». Comincia così questo romanzo, con poche misurate parole che segnano l'ingresso di un uomo nel tempo che segue alla scomparsa della persona amata. E il tempo che segue è un elenco di luoghi, oggetti, libri, episodi. È il tempo della mancanza e della memoria, e procede per scarti, per oscillazioni. Da una parte, il resoconto del presente, tracciato con grande pudore, ma senza fingimenti; dall'altra, la cronaca dura di una catastrofe privata (la diagnosi, le cure, gli interventi, le veglie sulle poltrone con una coperta addosso). "Senza" è il racconto di un amore a cui è stata negata la possibilità di invecchiare. Una lettera postuma, ma anche un'agenda del vuoto, lo stupore dei posti che sopravvivono, lo strazio dell'assenza, l'insofferenza per l'egoismo che si annida persino nel dolore. E, infine, un apprendistato della solitudine, che è sempre vedovanza di qualcosa, secondo il significato originario della parola latina, viduus, letteralmente «privo». Per il vedovo non è stata ancora elaborata una figura sociale. La sua è la vergogna dell'uomo solo, licenziato dalla Storia e asservito a un mondo improvvisamente desertificato e antimusicale dove tuttavia, insieme al dolore e al cordoglio, attraverso la scrittura sopravvive ancora l'amore.