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Vi è un frangente misterioso nella storia e nella genesi del senso, quello in cui da un fondo insignificante emergono uno scarto, una scintilla, una singolarità. Lo "scevà", termine preso a prestito dalla grammatica ebraica, designa lo sforzo di trattenere, nelle maglie della semiotica, questo istante paradossale, il primo baluginare della significanza, lo sbocciare del segno, l'affiorare del linguaggio. Non v'è altro modo per farlo che per ravvicinamenti progressivi, i quali nella foggia di una pietra, nella forma di una montagna, nella silhouette di un oggetto, nelle pieghe di un tessuto, fino all'abisso della materia disfatta lascino intravedere, all'improvviso ma inesorabilmente, altrettante parasemiotiche, adombramenti del senso: il profilo di un corpo, l'effigie di un volto, il destino di un'esistenza, la minaccia della violenza, ma anche la promessa di una salvezza possibile. "Scevà" è il tentativo di dire la forma nell'amorfo, la figura nell'informe, il messaggio nel silenzio, il senso nella materia, l'ombra nel buio, il sacro nel vuoto, il sussurro nel silenzio, la salvezza nella catastrofe.