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L'esordio di Dario Faggella è un'autobiografia al tempo stesso minima e iperbolica. Un romanzo di racconti picareschi giocati sul filo dell'ironia e di un realismo isterico, trasognato e tagliente, un Lazarillo contemporaneo che unisce idealmente Boris Vian, Andrea Pazienza e François Rabelais. Con una scrittura grottesca, scintillante e fiorita, con un talento narrativo spiazzante che si fa beffa del lettore ma che infine lo ricompensa con commoventi squarci di autenticità, Faggella percorre le tappe di un'educazione all'inettitudine e all'inadeguatezza cosmica di fronte alla realtà e alle relazioni. Memoria e menzogna, lirismo e squallore metropolitano si intrecciano con disarmante e implacabile sincerità, fino a chiudere il cerchio di un'esistenza qualunque e irripetibile. «Provengo dalla piccola borghesia impiegatizia. Mia madre covava per me le aspirazioni tipiche della suddetta classe: sognava che divenissi un alto esponente della futura classe dirigente. Purtroppo, invece, aveva partorito un essere sul cui destino era scritto "barbone". E così sarebbe stato, se colei che sarebbe poi diventata mia moglie non mi avesse raccattato per strada ubriaco e piangente, non mi avesse quindi ripulito e rimesso a nuovo. Rimango comunque consapevole che, se le cose dovessero andare male, il marciapiede e lo sporco dei muri dei palazzi mi riavrebbero come cosa loro per diritto naturale».