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La storia dei grandi processualcivilisti dei primi decenni dello scorso secolo - scrisse Franco Cipriani - è una storia di «oligarchi», «nobile, rara e inestinguibile stirpe», i cui membri amano questionare, talora con la parola, più spesso con gli scritti. Le polemiche dottrinali, quasi sempre «fiere», come lo furono - secondo Bruno Cavallone - quelle tra Mortara e Chiovenda, riflettono non solo (e non tanto) la presunzione di ognuno di essere il detentore del primato, ma anche (e principalmente) l'inconsapevole coscienza di essere parti di una convivenza tanto più sofferta e contrastata quanto più coinvolgente e irrinunciabile; come l'«amicizia faticata» che avvinse per quasi un cinquantennio Carnelutti e Calamandrei. Se le categorie metastoriche dell'arte potessero applicarsi ai membri di questa stirpe, qualcuno, forse, li potrebbe dividere tra apollinei e dionisiaci ripetendo, con Carnelutti, quella contrapposizione tra romantico e classico che lo studioso friulano, dinanzi alla salma di Calamandrei, riservò a se stesso e all'amico scomparso.