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Quando ci si rivolge a un avvocato per far valere i propri diritti, appellandosi alla giustizia col conforto di un codice, l'imbroglio è dietro l'angolo, la macchinazione è già pronta da servire: «L'uomo che ricorre alla legge sa, invece, di cacciarsi in una trappola». Luigi Pirandello lo sa bene: quando l'uomo si appoggia alla stampella della giurisprudenza non fa che offrirsi inerme al calappio. I siciliani sono «gente acuta e sospettosa, nata per le controversie» sosteneva Cicerone; Sciascia ha rincarato la dose: «Sono chiusi sospettosi sofisti, amano contraddirsi e contraddire, complicare le cose con l'astuzia e risolverle con secco intelletto». Forse da questa attitudine causidica, da questa specie di vocazione naturale a notomizzare, una sorta di vera e propria inclinazione cavillosa, ha origine l'atteggiamento sospettoso nei confronti della legge, la sfiducia verso la giustizia. Come conseguenza naturale, gli scrittori siciliani hanno spesso dato voce a questa inclinazione leguleia allineando nelle loro pagine situazioni spesso estreme o casi normalissimi: nel modo in cui si misurano le ragioni e i torti, si soppesano i pro e i contro per metterli sui due piatti di una bilancia, viene fuori il rapporto particolarissimo che i siciliani intrattengono con il formalismo giuridico. Ma è soprattutto in Pirandello che si contano innumerevoli le pagine affollate da isolani loici e notomizzatori, sempre pronti per ogni nonnulla ad attaccar questione e a ricorrere al parere di un legale. Pagine zeppe di avvocati soprattutto e di giudici, nelle quali torreggia ma trasversalmente il tema della giustizia: nelle più diverse ed estreme vicende umane, il premio Nobel agrigentino ha saputo cogliere gli aspetti giuridicamente più rilevanti, per poi rielaborarli, quasi sempre estremizzandoli in un interminabile arrovellio.