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È il 1916, mentre l'Occidente bandisce l'individuo in favore delle masse, Ungaretti s'illumina d'immenso. La terribile semplicità della sua solitudine viene scambiata per ermetismo. Ma - scrive Leone Piccioni - «non ci sono punti esclamativi, se mai qua e là appaiono punti interrogativi: c'è la memoria e la preveggenza». L'uomo è piccolo, è se stesso; e deve fare i conti con quel che la sorte gli manda in terra. Nel bene e nel male: nessuna ideologia ha per lui risposte sufficienti. Leone Piccioni è stato uno degli allievi più sapienti di Giuseppe Ungaretti: ne ha seguito la parabola poetica e ne ha sostenuto l'aporia quando sarebbe stato più facile propugnare ben altre certezze. E di Ungaretti ha consegnato ai posteri la metafora dell'uomo poeta che vivendo fa poesia. Sempre, anche nelle trincee che consolidano "Il Porto sepolto" che Leone Piccioni rilegge cent'anni dopo. Di Ungaretti - provocatoriamente - in questo saggio inedito Piccioni fa il catalogo della vita e degli amori, non quello dei drammi e delle assenze: perché, per il critico, "Il Porto sepolto" è la summa di una poesia semplice in un mondo che voleva vedersi proverbialmente complicato.