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Mentre il pensiero di Carl Schmitt, compromesso con il regime nazista, viene bandito dal mondo accademico, nelle università degli Stati Uniti fanno carriera vari studiosi europei (in buona parte ebrei tedeschi costretti all'esilio) che con lui hanno contratto consistenti debiti teorici. Alcuni sono stati suoi allievi e amici, altri semplicemente si sono confrontati con il suo pensiero perché a Weimar negli anni Venti, per un filosofo o un politologo o un giurista, era difficile non confrontarsi con Schmitt. Come hanno fatto i conti con il "bagaglio schmittiano" che avevano portato con sé dall'Europa? In che misura Schmitt ha influenzato il pensiero americano quando le regole della rispettabilità accademica sconsigliavano anche solo di menzionare il suo nome? Com'è accaduto che a un certo punto Schmitt sia stato riscoperto, e nel giro di un paio di decenni sia per così dire diventato di moda? Il presente saggio tenta di rispondere a queste domande. Dopo aver delineato il rapporto ambiguo tra Schmitt e gli Stati Uniti, l'autore prende in esame - e ridimensiona - i cosiddetti «dialoghi nascosti» (che secondo alcuni avrebbero segnato lo sviluppo del pensiero conservatore e neoconservatore americano) e soprattutto ricostruisce un importantissimo «dialogo mancato»: quello ingaggiato a partire dagli anni Cinquanta da Hannah Arendt, che in Schmitt identificava l'unico vero «discepolo di Hobbes» e il più acuto esponente di una linea del pensiero politico che secondo lei doveva essere messa radicalmente in discussione.