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Dante detestava i romani suoi contemporanei, che considerava «per bruttura di abitudini e costumi ... i più fetidi di tutti» gli italiani. Giudizio o pregiudizio? È difficile rispondere, ma forse dobbiamo ritenere che la pessima stima derivasse meno da un'esperienza diretta e più da un preconcetto, fondato su un sentire comune del tempo. Anche la stessa città sembra attrarre il Sommo solo per la sua storia antica, per la sua santità cristiana o per essere la sede del papato, che l'aveva trasformata in «cloaca del sangue e de la puzza». Il silenzio di Dante sulla città riflette in parte una clamorosa lacuna negli studi storiografici, poiché per la Roma dell'età di Dante mancava un'aggiornata ricostruzione degli svolgimenti politico-istituzionali che fosse dettagliata e solidamente ancorata alle fonti. Questa insufficienza di fondo si è ingigantita negli ultimi decenni dal mutare dei paradigmi interpretativi della storia delle città italiane e, precipuamente per Roma, dalle tante nuove ricerche e interpretazioni condotte nell'ultimo sessantennio su molti aspetti della società, economia, struttura urbana, cultura, arte e architettura di Roma nel pieno e nel tardo medioevo.