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Dei 2279 sonetti del suo capolavoro romanesco, Belli scrisse che potevano gustarsi isolatamente, ma che erano collegati dal «filo occulto della macchina». Qualcosa del genere può dirsi di questi contributi dedicati alla sua colossale raccolta poetica: sondaggi autonomi, sì, ma pure legati dal filo tenace di quella «verità sfacciata» preclusa alla «gente ricamata» e reperibile «tra noantri soli», a detta di un popolano che sembrerebbe enunciare la poetica rivoluzionaria dell'autore. Con sfrontata schiettezza, Belli tratta i temi del danaro (pecunia olet) della scuola di strada contrapposta alla pedagogia libresca, della mitizzazione e sconsacrazione trasteverina di Napoleone, della monnezza e dei monnezzari, dei giochi innocenti e maliziosi che animano la Roma plebea o i giardini vaticani. La maschera di uno screanzato Pasquino soggiace pure alla fortuna di Belli, oggetto di una sezione; gli apocrifi a lui attribuiti, le passatelle d'osteria in cui l'eccesso di sfacciataggine si misura a coltellate, in una Roma concreta e al contempo letteraria, quella che avrebbe attratto lo scapigliato Carlo Dossi.