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Scritte in una stagione di intensi viaggi nell'Est e nell'Ovest d'Europa, le prose del Diorama accolgono le stazioni e le strade di Praga, Odessa, Kiev, Olomouc; e quindi in senso contrario Venezia, Roma o Parigi. Entrano così, in questo spazio, le correnti d'aria, i tramonti, i binari, le aurore, le nebbie che rispondono, prima che alla vista, a una scala intima del narratore. Colpita da una luce radente, una città dopo l'altra entra nel ciclo di una prosa musicale, precisa e lontana, dove la ripetizione dei motivi - la memoria, la donna, l'impermanenza di ogni cosa - si afferma con la cadenza di una sestina. Qui, "nel varco feroce del mondo schierato", rompendo il cerchio compatto delle arie e delle voci, penetra il tema dell'addio, "l'infrangersi remoto del futuro su di noi". L'eterno ritorno dell'identico, variato appena nella dominante della luce, come la Cattedrale di Rouen alle diverse ore del giorno, scatena un'ossessione ritmica, una ronda che ha la compattezza, l'imperturbabilità, la circolarità, la malinconia di un canzoniere trecentesco.