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"Karl Löwith sostiene che ogni opera esprima non l'essere di un autore, ma la sua volontà di apparire, la quale sceglie, ordina, accorda, camuffa, esagera. Ma in sé, ogni sistema, ogni congegno inventato dall'uomo è solo una rappresentazione del mondo e della conoscenza. Per Bux la poesia è un sistema in sovraccarico, il tentativo di un fallimento, il prostrarsi alla sua personale trinità (pensiero, parola e verità, o se vogliamo, mondo, uomo e Dio). Tuttavia, proprio attraverso questa 'prova per difetto', egli si cimenta nella costruzione di una voragine, un cunicolo fatto di buio e luce. Senza nessun dolore apparente. Giacché non esiste dolore. Il dolore è la semplicità arresa al pensiero dominante e il logos è il non luogo per eccellenza, la morte di Dio. Il pensiero resta quindi la prima e unica sofferenza. Questa scrittura tende a farsi perfettamente, ed in modo inevitabile, perciò, referto clinico. Bux denuncia se stesso alla poesia, e lo fa costruendo e demolendo, nell'esattezza della propria opera, l'esercizio della parola mediante il paradigma dell'esistenza". (Cristina Annino)