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Addentrarsi per la prima volta in Myanmar, il Paese che una volta si chiamava Birmania, significa scoprire una terra inaspettata e bellissima, sebbene complicata da una difficile situazione politica. E significa incontrare i volti sereni e dignitosi della sua gente, che continua a sorridere nonostante tutto. Ogni cosa, qui, è come offuscata dall'umidità e dalla polvere, e ammantata di silenzio. Ma è proprio attraverso la coltre di nebbia e di sabbia che si intravede lo splendore: le tonache arancioni dei monaci buddhisti, il trucco giallo al profumo di mughetto sui visi delle donne e dei bambini, il rosso del betel. Colori vivaci ma mai chiassosi dipingono le città con i taxi Madza blu degli anni Cinquanta, mentre nella campagna ancora primitiva a prevalere sono il marrone delle strade e il blu dell'acqua. E poi ci sono le mille e mille pagode d'oro, oasi di meditazione e, forse, luoghi prediletti per l'inesauribile speranza. Pagina dopo pagina, colore dopo colore, melodia dopo melodia: ecco la terra magica dove per troppi anni è vissuta prigioniera Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991.