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La Patagonia è terra eccentrica, quasi irreale, che nel tempo ha dato ricetto alle solitudini e ai sogni di viaggiatori, avventurieri, perseguitati politici. Un'infinità di voci umane a cui si deve la mitografia che ha reso questa regione un luogo assoluto. L'immenso sud, l'estremo e profondo Fin del mundo, ha spinto la mente dell'uomo che l'ha attraversato a proiettarvi di tutto, come su una lavagna vuota. A volte, la strana umanità venuta fuori dai racconti ha fatto pensare a un "tipo patagonico" e allo sfruttamento, tutto epigonale, di un filone che nei primi cantori come Chatwin e Coloane non aveva mancato di regalare metallo puro. Nei testi più recenti vi è anche la fine del mito, la delusione del viaggio, la consapevolezza delle trasformazioni causate dal turismo di massa. L'autore, per parte sua, elabora una narrazione che intreccia tre generi di pagine: una scrittura di vocazione saggistica, che ricostruisce storie di viaggi e di avventure (la scoperta dello Stretto di Magellano, l"invenzione" dei giganti da parte di Pigafetta, i resoconti del capitano Giacomo Bove, ispiratore di Salgari, eccetera); una scrittura che è il taccuino del proprio viaggio, il cui disincanto non nasconde la sensazione di soggiogamento di fronte alla bellezza dei luoghi; una scrittura in cui la vicenda del viaggio è oltrepassata da quella dell'esilio. In quest'ultima configurazione, l'autore si interroga sui mali dell'Italia, lancia invettive contro un paese che sembra incapace di tirarsi fuori dall'immobilità.