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In questo secondo libro, relativo al periodo compreso tra il luglio 1941 e l'aprile 1945, Irving ripercorre gli eventi cruciali della seconda guerra mondiale. In questi anni, le iniziali vittorie conseguite sul fronte sovietico e in Africa contribuiscono al diffondersi di un illimitato ottimismo che contagia non solo Hitler, ma tutti i suoi collaboratori, inclini ad appoggiare il proprio leader. Di fronte a tale incrollabile stima, emerge ancora più chiaramente la delusione delle sconfitte, con cui si annuncia il definitivo crollo di quel Reich che appariva così invincibile. Eppure, nonostante le disfatte subite dall'esercito, malgrado il disfattismo imperante dei feldmarescialli, i tradimenti, gli attentati e la sempre più evidente incapacità della Luftwaffe di adempiere ai suoi compiti, la fede di Hitler in una vittoria finale persiste immutata fino all'ultimo. Schopenhauer identificò un raro tipo di individui che il destino eleva dall'oscurità all'eminenza: individui portati a credere che una misteriosa forza non li abbandonerà mai, persino nei momenti di sventura. Per loro nessun abisso è senza fondo e qualsiasi caduta deve essere necessariamente seguita da una risalita. Adolf Hitler era tra questi. Solo alla fine, le ripetute defezioni dei suoi generali, l'evidente supremazia nemica e il desiderio di sfuggire a un'umiliante cattura lo portano a scegliere il suicidio, atto finale di una tragedia ormai conclusa.