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I "Capricci napoletani" sprizzano una naturalezza quasi stendhaliana, ne hanno lo stesso beau désordre; li si legge rapiti, felici, leggermente attoniti, sorpresi d'incontrare fulminanti aforismi inframmezzati a ricordi e gags. Insomma, nonostante il filo rosso di Partenope che li annoda, o forse proprio grazie a esso, la loro scrittura ariosa autobiografica contenta di sé li pone tra le cose migliori del filosofo Sossio Giametta, di certo tra le più intime. Tanta bravura rinchiusa nel breve giro d'una prosa di colore, addirittura domestica, ci dà lo stesso senso di stupefazione e capogiro della saliera di Cellini: riesce a volgere l'ordinario in straordinario.