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"Penso anch'io di avere avuto una visione". Con queste parole si chiude uno dei più celebri romanzi del '900 Gita al Faro di Virginia Woolf, e a pronunciarle è un'artista, una delle poche superstiti di un gruppo originario che tanti, tanti anni prima aveva progettato la gita mai realizzata. Ed ora che dopo molto, troppo tempo tutto ciò si compie, lei, la pittrice, lo spirito creativo, coglie nella brumosa luce del presente i riverberi di un passato svanito. La luce illumina i ricordi e trasfigura ciò che sta intorno dando l'illusione della verità, della certezza, ma l'artista ha il sospetto che tutto sia solo una visione e forse la proiezione dei nostri bisogni. La luce, elemento e forza immateriale eppure ben misurabile, è la protagonista implicita di questa esposizione. La luce come elemento fisico verificabile, ma anche come agente senza il quale non si attivano certi processi tecnologici e chimici, la luce come ricordo eidetico di un qualcosa di visto e poi dimenticato, la luce come energia non conservabile, che si può generare ma non imbrigliare.
