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"Serpeggia da sempre nella poesia la diabolica luce dell'antipoesia, ovvero della tentazione di urtare, spiazzare, confondere il lettore fino al punto di creare nella sua mente un'irritazione, un disgusto che gli faccia chiedere a che punto le parole si giocano in ogni momento la loro ampia malafede in cambio di una raggiunta sublimazione. Ci hanno provato, ci provano in molti. Tipaldi ci riesce. Riesce a procurarci un fastidio, una discordanza che non siamo capaci di ridurre a ideologia, a pratica preconfezionata, a esercizio da leggere in chiave. Non è fatta per piacere a qualcuno, questa poesia, né per trovare le parole della propria vita, ma per farci ricredere (e reagire) riguardo il nostro "abitare poeticamente" le ben strutturate abitudini insediate nella pratica della lingua".