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«Prendere Dante sul serio, tentando di sottrarlo alla tenaglia che lo stringe fra i due poli del "visionario" da una parte e del "reazionario" dall'altra»: il nostalgico del buon tempo antico che dà voce all'avo Cacciaguida e l'antenato che al postero sembrerà sempre «qualcuno arrivato prima di lui» (Contini). Parte da qui l'impegno di Marco Romanelli nel neutralizzare la falsa opposizione che induce a venerare il Poeta quando straordinariamente crea, ma a "lasciarlo perdere", a non ascoltarlo, quando discutibilmente parla di politica ed economia. Proprio il suo pensiero economico - tra i meno indagati dell'universo culturale dantesco e invece molto più aggiornato e specialistico di quanto si possa pensare -rivela viceversa quanto Dante non si sia mai sentito estraneo ai suoi tempi e come al tema della beatitudo huius vitae fosse sensibile non meno che a quello della vita eterna. Seguendo le piste delle molte esplicite formulazioni teoriche e quelle più o meno nascoste nelle pieghe della poesia, di questo pensiero si ricostruisce la tormentata elaborazione: dagli ancora felici tempi fiorentini in cui Dante si credeva erede della missione pedagogica di Brunetto Latini nei confronti della neonata società mercantile, alla crisi di disperazione causata dal trauma dell'esilio che gli fece corteggiare le sirene del nichilismo, fino alla sublimazione della Commedia. E nel poema infatti che Dante, superate tutte le angustie municipali contingenti, approda all'idea di una società antiutilitaristica e conviviale fondata su quell'etica del dono che affonda le sue radici nella dottrina cristiana delle origini e nel pauperismo francescano come nella civiltà latina e poi cortese, ma che l'antenato ha consegnato anche ai posteri e alle loro formulazioni teoriche, da Mauss a Caillé.