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La fine dell'Ottocento e tutto il Novecento sono stati segnati da una riflessione e una letteratura che hanno estremizzato la fragilità come dinamica esistenziale negativa e distruttiva. Questa visione iper-realistica, senza un segno di speranza, ha condotto a sedimentare l'idea che l'essere umano è inevitabilmente destinato a una vita depressa, il cui atto estremo può soltanto essere quello dell'auto-soppressione. Ciò non combacia con la prospettiva della parola di Dio e del cristianesimo, che fanno della fragilità umana non la condanna, ma il trampolino di lancio della liberazione, della redenzione, della risurrezione. Dio non ha voluto la sofferenza e il dolore, ma ha dato vita a un mondo limitato e fragile. Ciò che accade e che può ferire l'identità umana è, in realtà, il risultato di un cosmo creato con il cromosoma della vulnerabilità. Solo grazie a questa condizione l'essere umano può esercitare la sua libertà che sta a fondamento di qualsiasi scelta, soprattutto della decisione pro o contro Dio. La vulnerabilità umana rappresenta la condizione per aprirsi all'Assoluto, fondamento ultimo di una realtà frammentaria e incompiuta.