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Ha ancora senso cercare la verità nel processo? Ha ancora senso in un processo penale quale il nostro, basato sul principio del contraddittorio e connotato da regole di esclusione probatoria che appaiono talvolta impeditive di un autentico accertamento dei fatti di causa? Ma soprattutto, ammesso che continui a svolgere un ruolo nel contesto forense, di quale verità stiamo parlando? E di quale concezione della verità avremmo bisogno? Riconsiderata per rispondere a queste domande, la dottrina tommasiana dell'adaequatio si mostra in grado di apportare un significativo contributo all'epistemologia giudiziaria, in quanto, in combinazione con la riflessione dell'Aquinate sulla certitudo probabilis delle testimonianze, permette di coniugare la consapevolezza che nell'amministrazione della giustizia, come in ogni materia variabile e contingente, non possiamo raggiungere certezze assolute, con la convinzione di poter nondimeno conoscere ciò che con più probabilità si è effettivamente verificato. La dialettica disputativa praticata dal maestro domenicano nella ricerca dell'adaequatio fornisce poi un supporto logico e metodologico che appare particolarmente idoneo alla selezione e al controllo delle ipotesi decisorie formulate nel corso del giudizio, consentendo di individuare quella, tra le alternative disponibili, che più probabilmente "corrisponde" alla realtà dei fatti di causa, e addirittura, come deve essere nel caso del processo penale, di appurare se l'affermazione di colpevolezza vi corrisponda "al di là di ogni ragionevole dubbio".