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Era un'acqua cattiva quella che dilatava i rintocchi cupi e accorati delle campane nelle golene di Po, quel novembre del 1951. Era terra svuotata della sua gente e piena d'un mare estraneo, marrone e ostile; un'onda prepotente e sporca che quella gente aveva costretto alla fuga, all'abbandono delle case, povere ma ricche di umanità, nelle cascine che erano il mondo di allora, e aveva invaso con i detriti raccolti chissà dove e galleggianti sul suo pelo scuro i campi appena lavorati con i primi trattori americani, ripuliti dalle stoppie dei raccolti, dissodati con le lame lucenti degli aratri, pettinati con l'erpice, lisciati col rullo di granito, seminati con pazienza, pronti al riposo invernale foriero di nuovi germogli. Si rincorrevano, quei tocchi, da campanile a campanile, da paese a paese; si chiamavano; si sommavano, sulla sponda cremonese e sull'opposta, piacentina e parmigiana; valicavano quel confine liquido e tumultuoso; si facevano voce unica.