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«Fin dalle sue origini l'antropologia culturale ha posto al centro dei propri interessi i simboli e il linguaggio riconoscendo il ruolo determinante delle pratiche comunicative e linguistiche nella formazione e trasformazione delle culture, nonché nell'attribuzione e nella distribuzione sociale del potere. Forse proprio la lunga consuetudine a trattare simili questioni come "oggetti del campo" - osservati da una lente esterna - ha reso particolarmente destabilizzante per lo statuto della disciplina il dibattito sul linguaggio e sul potere, quando lo sguardo dell'antropologia è stato rivolto in modo riflessivo alle pratiche della ricerca e alla costruzione dei testi etnografici. Già alla metà degli anni Sessanta la discussione sulla natura delle "fonti" del sapere antropologico aveva inaugurato una riflessione via via più corrosiva nei confronti del concetto di cultura, mettendone in luce il carattere dinamico in opposizione alla tradizionale visione Dmeostatica. Benché tendesse ad accentuare l'instabilità dei dati, tale dibattito lasciava intatta la fiducia nei testi - contenitori in cui le fonti sarebbero semplicemente ordinate e riprodotte -, nonché l'autorità :on cui la disciplina ha da sempre perseguito la promessa relativistica di far parlare "altre voci". Negli stessi anni, il confronto tra filosofi e antropologi sul tema della razionalità (Rationality Debate) portò ad una decisiva relativizzazione del modello classico di conoscenza basato sulle leggi della logica aristotelica. Ciò contribuì a consumare lentamente la fiducia in una forma di oggettivismo che presupponeva la rigorosa concordanza di idee e concetti con i dati del reale, e che escludeva qualsiasi condizionamento interpretativo del soggetto...» (Dall'Introduzione)