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Istantanee, versi come fotografie, giorni che scandiscono intervalli di tempo su cui porre silenzio per alleviare l'attesa: è un ritmo lieve di passi quello della Di Castri che, dalla negazione della perdita, dall'accettazione, giunge fino alla reale separazione, al commiato definitivo. Intima e privata elaborazione di un lutto, dove nella creazione della 'parola-segno' che dà coscienza visiva al desiderio di non vedere, si traspone in una epigrafe la rabbia inerte. È una Penelope che aspetta, tesse e disfa, vita e morte, il divenire cosciente e il rifugio nell'incosciente, fra ricordi e spazi dove l'onnipotente e disperato affetto si strugge nell'immobilità. Un Laerte già lontano, di una malattia che ne segna già il destino, di una demenza che ne vanifica perfino i tratti immutati del corpo dove si cela la presenza. E se l'Odissea è il poema del ritorno e Penelope rappresenta la fedeltà coniugale, traspare forse nei versi il senso di colpa di un desiderio infranto e rinnegato che diniega il complesso di un desiderio lontano?