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"Ho scritto Stazioni - erano i mesi che preludevano all'inizio del nuovo millennio - come in trance, quasi senza volerlo, per certi aspetti controvoglia. Ma è stato come un'apertura improvvisa su un territorio di cui ignoravo tutto, e che mi ha immediatamente soggiogato. Al centro è la città: con le sue stanze, le sue voci, le parole frantumate e approssimative, apparentemente prive di un senso, ma forse per questo ancora più intrise di verità, di piaghe, di bizzarri umori. Stazioni,appunto, con riferimento alle stazioni della via Crucis, ma anche al significato etimologico del vocabolo: luoghi dove si sta, spesso per caso, dove si è condannati a stare, e dunque anche gironi purgatoriali, dove gli incontri valgono il doppio, perché ci parlano di un'espiazione collettiva, civile prima ancora che religiosa. Mi colpiva, nei suoi aspetti più sordidi e avvilenti, la quotidianità, una quotidianità certo fantasticamente potenziata, come immagino sempre debba essere, quando si scrive per qualcosa che non è solo qui, ma è sempre, prima e dopo di noi. Né d'altronde mancano in questo testo - intermedio, almeno nelle intenzioni, fra il genere dialogico e la rappresentazione scenica - schegge liriche, sezioni didascaliche, meditazioni, intermezzi scherzosi in rima, sgranati come luci dentro il gran mare della città, che è sempre, con precisione di luoghi e di vie, Milano."