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"Lopadosa, Lipadusa, Lampedosa. Il nome deriva da una radice greca che significa luce, fuoco. Così mi ha detto qualche giorno dopo il responsabile dell'archivio storico dell'isola. A poco a poco m'è entrata sotto la pelle. Così com'era. Luminusa." Ha un nome che evoca la luce, il fuoco, e nelle giornate limpide ti sembra di percepire la grana dell'aria - argento puro. In fondo al suo mare, che ha tutte le sfumature del verde, dell'azzurro e del blu, giacciono ventimila morti senza nome, ammazzati. Di loro restano a volte tracce dilavate dalla salsedine: un sandalo infradito a rombi bianchi e neri comprato al mercato di Sfax, la foto di una sposa dalla pelle nerissima in abito di pizzo bianco, un rotolo di lettere in tigrino, una cassetta di Bob Marley. Ed è qui, a Lampedusa, che Mario, con malinconica determinazione, è venuto ad affrontare il suo segreto senso di inappartenenza e l'incertezza del futuro. Come se raccogliere quelle tracce in un minuscolo museo e salvaguardarne la memoria con didascalie in versi scritte su fragile carta velina potesse rendere più tollerabile la disillusione. Come se solo a Lampedusa, crocevia di destini, di strazio e di solidarietà, fosse possibile rispecchiarsi in chi ha osato cercare la salvezza su un barcone, e tornare a sperare. Con "Luminusa", Franca Cavagnoli ci costringe a guardare con altri occhi alla terra promessa di Lampedusa, alle tragedie e agli sbarchi che affollano le cronache...