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I montanari del Seicento vissero l'avanzata dei ghiacciai alpini come una maledizione, perché una teologia infarcita di mito e superstizione attribuì la Piccola età glaciale alle colpe degli uomini. Ma nel Settecento l'inferno è diventato il paradiso, attraverso la progressiva rivalutazione dell'alta montagna e la percezione positiva dei ghiacciai, rivelatisi nella rappresentazione artistica, nell'avventura alpinistica e nella colonizzazione turistica. Al termine di un lungo processo di riconversione simbolica, i cittadini del ventunesimo secolo vivono in modo perturbante la scomparsa dei ghiacciai alpini. Se i nostri antenati temettero la discesa dei fiumi gelati, fonte di disordine e distruzione, al contrario noi temiamo e subiamo la salita dello zero termico e l'arretramento delle nevi in quanto agenti di minaccia, e immagini capovolte del male. Il «drago» delle paure e delle leggende primordiali si libera dal suo gelido sudario e riappare negli incubi notturni dell'improvvido popolo di internet al tempo del disgelo. La colpa contemporanea è annidata nel dubbio inespresso che un patto sia stato tradito e un equilibrio incrinato per sempre. Il disordine etico, il nichilismo del mercato, la morte di Dio trovano una rappresentazione fisica e simbolica nello smagrimento dei ghiacciai, candide vittime di un'anoressia incurabile.