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Una gigantesca metropoli che tutto emargina e fagocita. Le sue strade congestionate e le sue fragili baraccopoli, ammasso di fame e rifiuti. "La mano dell'angelo" è il romanzo di una città, di un universo, quello colombiano, crudo nella sua cupa disperazione. In Iriarte, scrittore dal tono stilistico spietato che graffia i barlumi d'incanto del realismo magico marqueziano, si affaccia la ferocia di una vita di miseria vissuta a Bogotà. Due mondi contrapposti ma ugualmente miserabili: l'estrema povertà degli indigenti e l'implacabile sete di ricchezze del mercato della droga. Le esistenze sono fragili come baracche; vite come "un lamento che racchiude in sé tutta l'immensa tragedia di un essere umano che ha messo piede su questa terra". I personaggi sono anestetizzati dal desiderio di sonno e di oblio, procurato da alcool e droghe, prima fra tutte il terribile basuco, sinonimo di un terrore crudele e che mai tace. Lo scrittore indugia sulle agghiaccianti scene di violenza: la verità non va edulcorata ma scavata fino in fondo, quel fondo che non si vorrebbe vedere e che Iriarte mostra esplicitamente con irruenza. Bisogna inabissarsi per poter risalire, la redenzione passa attraverso una discesa agli inferi. Nessun intervento salvifico è immune da dolore, non basta la mano di un angelo e questa non è tanto l'espressione di una provvidenza divina quanto il desiderio umano di solidarietà, vivere e sopportare dolore per qualcun altro.