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Quando si studia la storia dell'alimentazione inevitabilmente ci si imbatte su una contraddizione di fondo: da una parte la lenta dinamica dei bisogni primari della grande massa della popolazione, dall'altra la più articolata evoluzione dei consumi alimentari dei pochi che vivono nell'abbondanza. Non è un caso che un libro di Massimo Montanari si intitoli La fame e l'abbondanza: per molti secoli la storia dell'alimentazione è racchiusa tra questi due estremi. È vero che nell'Ottocento, con la diffusione del mais e della patata e grazie ai progressi dell'agricoltura, spariscono le grandi carestie; ma in Italia non migliorano in modo significativo la qualità e il contenuto calorico della dieta della massa della popolazione, sia rurale che urbana. Per quello che riguarda le Marche, lo confermano gli studi che sono stati dedicati alle consuetudini alimentari delle regioni mezzadrili. Ma basta leggere quanto scrivevano gli estensori dell'Inchiesta agraria Jacini pubblicata nel 1883: «Il contadino marchigiano è assai parco nel mangiare e lo è non solo per necessità, ma anche per abitudine. Tanto che le famiglie coloniche che godono di un certo benessere non si cibano molto più lautamente di quelle che sono strette nel bisogno.