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Basandosi sugli atti di un processo in cui una quindicina di anni fa un tribunale del Sud ha condannato diverse persone per associazione a delinquere di tipo mafioso, il libro analizza i meno appariscenti risvolti politici di una sentenza che altrimenti sarebbe archiviata tra gli ordinari procedimenti ex art. 416 bis del codice penale. Quel che potrebbe apparire come un caso di criminalità comune si rivela in realtà una vicenda eminentemente politica, non per il rango degli imputati bensì per la sorprendente decisione del tribunale di condannarli a risarcire lo Stato per la "mutilazione della sua sovranità". I giudici trasformano un ordinario processo antimafia in un esperimento di riparazione della sovranità, una nozione che storicamente si è costruita sulla sua incommensurabilità economica, sull'impossibilità cioè che come qualsiasi altro bene civile divenga oggetto di una valutazione monetaria nei termini del pregiudizio subito. Nell'intento di tutelare la ricchezza suprema dello Stato, i giudici del processo partoriscono una sentenza "suicida", il cui eccesso di zelo protettivo nei riguardi della sovranità finisce paradossalmente per indebolirne significativamente il rango e il valore simbolico. Condotto sulla linea maestra della ricostruzione giudiziaria, ma non privandosi delle necessarie aperture storiche, filosofiche e antropologiche, il libro scopre nell'unicità di questo caso un insospettabile sostegno argomentativo da opporre alle pretese del sovranismo, spettro di una nozione, la sovranità, consegnata all'obitorio dalla critica.