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Fuori dai consueti argini cinquecenteschi, questo libro si confronta con una delle strutture più forti della nostra tradizione letteraria, il canzoniere. Al centro dello studio sono il Seicento e l'area culturale napoletana, una geografia e una storia che non suggeriscono panorami letterari tranquillizzanti: nel pieno dello sconquasso che attraversa l'Italia meridionale nel XVII secolo riesce difficile pensare a strutture poetiche solide e compatte. Quelli che ci si presentano sono piuttosto sistemi di inaudita complessità, tentativi un po' stremati di inseguire un'unità che tende di continuo a sottrarsi. È del resto storia antica, quella della frantumazione del monolite petrarchesco, la storia di un reale che, fra Tasso e Marino, si disgrega, e assieme si dilata all'inverosimile, si dispiega in partizioni sempre più sottili, quasi braccato in ogni suo minimo rivolo. E le elaborate architetture che sorreggono questo maniacale esame della realtà significano proprio la volontà di sfuggire al caos, di trovare un logos all'interno di un mondo di cui si sono smarrite le coordinate, e assieme di garantirsi, in quanto letterati, una qualche forma di sopravvivenza in un sistema chiuso e autoreferenziale. Possono essere i cieli di Fontanella o le stagioni di Casaburi Urries, l'impressione generale non cambia: l'universo, ammonisce il Battista, resta una "Macchina mal composta, a cui non porse / beltà la forma", e il sogno del classicismo pare definitivamente tramontato.