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L'haiku è l'arma segreta - un'arma corta, miniaturizzata, ma non per questo meno temibile - con cui la cultura giapponese ha penetrato, segnato e influenzato la poesia moderna dell'Occidente (l'altra arma, nella figurazione, è l'ukiyo-e). Tutti i grandi poeti del Novecento si sono cimentati con questa minuscola composizione poetica (tre soli versi di diciassette sillabe), da Mallarmé a Claudel, da Roland Barthes a Jaccottet, da Borges a Pasolini, sempre cercando di catturarne lo spirito e sempre incontrandone l'evanescenza. L'haiku è un lampo. Un lampo che scocca in un cielo dove non ci sono presagi. Difficile fissarne l'essenza: forse ci vorrebbe una poesia dipinta o meglio che dipingesse. Comunque non ci sarebbero, nel nostro canzoniere occidentale, versi solitari come «M'illumino d'immenso» (Ungaretti) o «Etre le premier venu» (Char), senza che l'haiku avesse fatto la sua comparsa (o dovrei dire la sua «scomparsa»?). Anche questa raccolta di versi è sotto il segno dell'haiku di cui ritiene di conoscere fascino e frustrazione. Sentimento che ha attirato l'attenzione di Pedro Erber, che ha insegnato a lungo in Giappone e ha tradotto il massimo poeta giapponese vivente, Yoshimasu Gozo. Oggi Erber insegna al dipartimento di Romance Studies dell'università Cornell a Ithaca, nello stato di New York e dunque ci sembra lo studioso perfetto per commentare questo testo anomalo. Così come ci sembra perfetto il pittore Raphael Thierry, uno dei nomi importanti della Nuova Figurazione francese, per illustrare la copertina con un omaggio a Roger Laporte (la sua mano mentre appone il sigillo).