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Il sole che si spegne, una lama, l'acqua furiosa del temporale. E poi la lingua nella lingua: i fistini, la zia e niputi, la nobiltà cariata dei valzer in casa, le grandi tende appesantite e allora il dialetto siciliano che scheggia attorno le forme come un filo di metallo controvento ma fermo lì, rigido, mostruoso, sublime, sotto l'unghia dell'italiano, fino a creare un fremito di amarezza e insieme di piena nostalgia. Il romanzo di Vincenzo Galluzzo, come sempre, possiede una rete magica di rifrazioni: cade nel fondale oscuro delle cose. Tutto ciò che leggiamo sembra antico ma non semplicemente effetto di una narrazione, giacché, piuttosto, pare sul punto di accadere nell'attimo stesso della lettura, davanti agli occhi storditi del lettore. "La notte di mezzagosto" parla di nuovo della perfezione della Sicilia. Di lei, l'isola abbagliante, della pazzia di una terra isola, perché divina, ma da sempre terra senza confini, giacché isola di mostri e chimere. Così come tali sono i meravigliosi personaggi di questa storia. Specie Federico e Angelica, assieme al catarro, alla cattiveria sontuosa di Santamaria: ciascuno di loro preso dal proprio segreto, ciascuno spossato e insuperbito dalla propria verità. Vincenzo Galluzzo chiude tutto questo in un tempo romanzesco che è insieme epico e macabro oppure improvvisamente lirico, a tratti poliziesco, così come sottilmente prossimo a un'inedita confessione biografica. E il risultato è avvincente: alla fine anche l'acqua del mare e della pioggia si fanno azzurre come il cielo; ma l'identità non consola, anzi ci fa spavento, fino ad insinuarci nella mente una possibile straordinaria lucidità - l'idea che la nostra stessa esistenza sia un processo aberrante di perdita e di nuda sparizione. Ma qui è il punto dell'assurdo: quel perdersi non vuol dire morire, quanto vivere. E della vita parla Vincenzo Galluzzo, con la certezza di un editto: dai labirinti si esce solo entrando in nuovi labirinti.