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Chi è Carlo Torquace? A prima vista un procuratore della Repubblica napoletano che, a Cuneo, indaga sull'omicidio di un farmacista e politico di potere. Più da vicino, però, è un uomo con un trauma - esploso nel bel mezzo della carriera, a Milano - che usa l'inchiesta per dimostrare di averlo superato. Ha bisogno di trovare l'assassino, un assassino, anche se l'hanno confinato a Cuneo, dove «non si prende mai nessuno». Fa il detective per sopravvivere. L'unico che «indaga con accompagnamento psicoanalitico» di un bizzarro psichiatra, il dottor Visano, consulente di Polizia, che nel malato Torquace scopre il criminologo ideale: «grazie» alla mania di persecuzione, troverà la soluzione perché vede l'assassino come causa di tutti i suoi guai. È un «maniaco dell'omicida», lo «sente» ovunque. In realtà è tutt'altro che un superuomo, abbagliato in un gioco di specchi da assassini improbabili, in carne e ossa, o verosimili ma fantasmatici. Ha un colpevole perfetto (ma non credibile) già in galera, la famiglia del morto che potrebbe aver ammazzato per l'eredità milionaria, un commercialista cocainomane numerologo e raggelante, una procace badante brasiliana che ricattava l'ucciso e un farmacista-profumiere che trova l'odore dell'omicida. Lettere anonime. Sussurri e grida sotto gli antichi portici di via Roma. Ma il vero tormento di Torquace è lo zero con cui l'assassino ha cerchiato la vittima: torna dietro ogni angolo dell'inchiesta. E poi trova numeri che sono la chiave dell'omicidio, ma inspiegabili. Solo la voce - d'amore? - di una donna gli spiegherà che quelli sono i «numeri di Dio». Quelli della perfezione, di Fibonacci. Allora Torquace capirà che quello è un «delitto perfetto di Dio». E risolverà il caso. O forse no. Ma scoprirà anche che per la sua depressione ha già bisogno di un altro assassino da cacciare.