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Marcel Proust e Jacques Rivière, lo scrittore e il critico, entrambi di esasperata sensibilità, morale ed estetica. Come in ogni coppia che si rispetti non può mancare il terzo: Sigmund Freud. Non solo, il primo scrive il suo fluviale romanzo come se fosse la sua personale resa dei conti con la propria sensibilità di uomo prima ancora che di scrittore; il critico, affascinato dall'enorme e inarrestabile capacità di scandaglio dell'animo umano che il romanziere dispiega nelle sue pagine non può che confrontarlo con lo scopritore dell'inconscio, o meglio, della presa che esercita sulla coscienza. Anche quest'ultimo promette bene quanto a «studio del cuore umano», narrazione compresa (basti pensare alla qualità letteraria dei casi clinici e dell'inaugurale Interpretazione dei sogni). Il tutto giocato sul filo di una probità intellettuale che il cattolico Rivière sa che è messa a dura prova dalla diffidenza di Freud verso la coscienza che si vuole chiara e distinta e che invece ai suoi occhi tale non è; così come dalla proustiana sfiducia nei confronti dei sentimenti. I due grandi spioni della coscienza lo inquietano e Proust, dichiara Rivière, è il «più spaventoso rivelatore su me stesso che potessi incontrare». Pronunciati come discorsi al Vieux-Colombier e a Monaco, tra il 1923 e il 1924, con l'appendice di altri due interventi, questi scritti di Rivière raccolgono una delle riflessioni critiche più acute, e anticipatrici, sul rapporto tra romanzo e verità dell'uomo e della sua coscienza alla luce delle prime formulazioni della psicoanalisi freudiana. È uno sguardo e un'attenzione a cui manca davvero poco per rivolgere il sospetto sugli stessi che lo promuovono. Come interpretare altrimenti la domanda finale di Rivière? «L'opera d'arte deve il suo potere di seduzione ad un certo slancio illusorio del pensiero. Sopravviverà se lo scrittore si proporrà quale compito fondamentale quello di contrastare tali forze e di smascherarle?».