Tab Article
Già nell'estate-autunno 1915 i cappellani non aspettavano solo l'arrivo dei feriti nei posti di medicazione, ma andavano a confortare e a recuperare i feriti sul campo di battaglia, avvicinandosi sempre più alla linea di fuoco, lì dove serviva il loro soccorso, l'incitamento ai barellieri, l'organizzazione dello sgombero. Molti cappellani escono di notte, o di giorno fidando dell'abito talare o della croce cucita sulla divisa, a recuperare i corpi per dare sepoltura. Ma quella dei feriti che invocano soccorso oltre i reticolati e che muoiono senza nessuno vicino è per molti sacerdoti una cosa insopportabile. Ed escono dalle trincee. Seguono in coda le ondate d'assalto per poter subito raccogliere i feriti, e salvarli, e assistere i morenti, e salvarli. Sono giovani che hanno ancora l'ingenuità della gente semplice. Sono lì, abbandonati nella terra di nessuno, assetati, invocanti la mamma. Ecco allora che i cappellani escono dai ripari e di propria volontà per rispettare un vincolo morale, un'etica basata sul desiderio di non deludere chi si attende qualcosa da te, rischiano la vita spesso solo per tenere la mano ai feriti e tranquillizzarli. Ecco che corrono tra gli scoppi delle granate. Nessuno l'ha loro ordinato. Anzi il loro posto canonico era il posto di medicazione o l'ospedaletto da campo, abbastanza lontano e sicuro. Il loro coraggio è eroismo puro, perché non raccontarlo? Commemorare, in un centenario forse irrimediabilmente fallito dalla noncuranza delle istituzioni preposte alla trasmissione della memoria storica di un popolo che ha pochi motivi di fierezza, significa soprattutto raccontare perché se non si racconta è come se il loro sacrificio non sia esistito.