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A Napoli dicevano che il veleno inseguì Ladislao per tutta la vita. «A Capua, nel 1396, era scampato per miracolo alla morte: il suo coppiere che aveva bevuto prima di lui, Cola di Fusco, cedette di schianto e Ladislao sopravvisse alle febbri venefiche, ma si portò per il resto dei suoi giorni una leggera balbuzie e da quel momento non si fidò più di nessuno». A dire dei più «la sua fine fu segnata da un inganno: il Re Ladislao, invaghito della bella figlia di un medico fiorentino della schiera nemica dei Durazzo, chiese al padre di farla coricare con lui; il medico acconsentì, ma intinse di veleno - con un pannicello medicato con lo quale se devesse anectare la natura - le labbra intime della ragazza, e fu così che Ladislao capitolò alla trappola baciando il sesso dell'amante». Tutti i suoi ambiziosi progetti non si realizzarono mai perché, colpito dalla malattia venerea, fece presto rientro a Napoli, dove morì il 6 agosto 1414. Ancora oggi non è dato sapere se l'avvelenamento che distrusse la vita del giovane sovrano a soli 38 anni fu esecuzione politica di Firenze, se fu opera di una fanciulla, o se in realtà fu una malattia infettiva dell'apparato genitale, causata dalle abitudini sessuali dissolute e promiscue del sovrano. C'è una locuzione latina nota per essere stata spesso sulla bocca di Ladislao I Durazzo. Difatti, del Re che unificò l'Italia da Perugia a Taranto, è ancora vivo il suo motto, aut Caesar, aut nihil! Proprio così: O Cesare, o niente!