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"Die Juden zu Köln", opera giovanile di Wilhelm Jensen, fu pubblicata nel 1869, a tre anni dalla battaglia di Königgrätz, più nota in Italia come Sadowa, e dall'esclusione definitiva dell'Austria dalla Mitteleuropa germanica egemonizzata dalla Prussia. Theodor Herzl, il fondatore del Sionismo, apprezzò il libro e definì Jensen "il poeta della mia giovinezza". È una appassionata denuncia e un grido di allarme contro il risorgere dell'antisemitismo in terra tedesca, qui nelle fattezze dell'antigiudaismo cattolico. Siamo alla metà del XIV secolo. Il giovane ebreo Hellem torna, dopo sette anni di lontananza e nel momento peggiore, nella sua Colonia. Favorita dalle pessime condizioni igieniche, la peste infuria mietendo centinaia di vittime. Il male si manifesta in forme meno virulente nel Ghetto, che può contare su una sapienza medica e su una migliore pulizia. La repentina diffusione del contagio fa tuttavia nascere un diffuso sentimento di imminente Fine dei Tempi, per placare il quale serve un colpevole che viene identificato nell'ebreo, "uccisore di Nostro Signore Gesù Cristo" e "avvelenatore dei pozzi". Di qui l'assalto al Ghetto e la distruzione pressoché totale di quella che era allora la maggiore comunità israelitica della Germania. Tra la Ghettoliteratur e il romanzo storico, ne "Gli ebrei di Colonia" gli eventi sono rivissuti anche con una coloritura fantastica e chiaroscurale, nella dimensione dei sentimenti. L'amore e la solidarietà, l'odio e la violenza determinano il comportamento dei diversi personaggi, che talvolta riescono a valicare gli steccati che la Storia ha innalzato tra di loro, nel riconoscimento di un destino comune, illuminato dalla Luce della Ragione.