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"Argéman: sono lingue di neve perenni annidate in certi anfratti di montagna. Iris argeman è un fiore purpureo del deserto. Nahal Argeman è un villaggio in Palestina, che dalle alture guarda il Giordano. Intorno, terra bruciata, muri che chiudono territori feriti. Sono richiami lontanissimi, neve alpina e sabbia orientale, passaggi stringenti. Piccole porte dove si affacciano volti e paure, domande che lacerano. Vengono bambini di pietra, vengono i cadaveri strappati dagli smottamenti alle Cinque Terre e trascinati dalle correnti a Saint-Tropez, verso gli yacht lussuosi dei ladri; vengono le madri della Terra di lavoro, fra il Volturno e Gaeta, dove l'elenco dei tumori è stato silenziato. Ciò che più conta è indifeso: spazziamo dunque via la neve dagli occhi, vinciamo il silenzio delle mani, il silenzio delle ossa. Oltre la piccola porta, lungo un grigio bituminoso, senza speranze o nostalgie, cerchiamo valli più morbide, una terra su cui varrà la pena camminare. E mentre noi frughiamo nel terriccio dei nostri anni di plastica, in un reticolo di arterie e vene, senza trovare via di fuga, appari all'improvviso, senza bagliore o ronzio per annunciarti, leggera smeraldina, libellula, messaggera dei cieli e degli stagni. Nega l'ovvio, schiudici un'altra più segreta geometria. Tocca ogni cosa, sillaba bene il suo nome e falla vera." La voce del poeta viaggia a ritroso, contro la corrente, verso la sorgente, per reinventare il suo dovere di memoria...