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Secondo l'autore la "malattia psicologica" altro non è che servitù (a volte schiavitù) a inibizione, sintomo e angoscia. Cioè la debolezza o addirittura la mancanza nel Soggetto di una "propria" psicologia (competenza, sapere, cura del proprio pensiero) che gli impedisce o gli rende difficile opporre sufficiente fronte alla sofferenza. Affinché ci sia salute, si pone allora per il Soggetto la questione di rendere libera la propria strada di vita, tracciandola possibilmente su una regola interna, su un proprio stile, su un proprio giudizio, su una propria autonomia, su una propria responsabilità in riferimento a quello che dice e fa all'altro e con l'altro. E dall'altro sa ricevere. Libertà infatti non può essere un valore di salute se non all'interno della relazione e dello scambio con l'altro e con Altro. Avere una "propria" psicologia diviene allora strumento di cura del nostro pensiero che ci consente di raggiungere un grado di soddisfazione e realizzazione individuale da mettere (anche) a disposizione dell'altro. Nessuno, in ogni caso, può garantire che la strada battuta sia riparata dalla sofferenza e completamente risolutiva della nostra "malattia psicologica", o del nostro stesso e umanissimo "mal di vivere".